Polina

Con le ultime forze dopo la partita di basket, che mi ha visto grande protagonista sul tabellone dei falli ma piuttosto assente su quello dei marcatori, devo dirti che il concerto di ieri sera di Polina Leschenko è stato interessante e a tratti molto bello. Mi è sembrato che la qualità andasse aumentando di minuto in minuto, da un Haydn più o meno a un Carnevale di Shumann pregevolissimo.

Tecnicamente è molto brava, è piena di temperamento, ma se proprio volessi farle le pulci potrei dire che l’ho trovata un poco limitata come gamma di colori.

Tu dirai, a ventitrè anni non puoi mica pretendere la maturità artistica. Ma Stanislav Bunin era già Bunin a vent’anni (e Vengerov, e Menuhin, passando al violino).

Tu allora ribatterai citando Anton Rubinstein, che da ragazzo pestava fortissimo con la mano sinistra per farsi notare, o Lazar Berman che appena arrivato in Occidente faceva di ogni concerto una esibizione di puro funambolismo, con la musica solo un pretesto. E qui ti darò ragione, e concorderò con te che Polina può migliorare, anzi migliorerà senz’altro e diverterà una delle grandi interpreti dei prossimi vent’anni.

Polina non usa il classico sgabello ma una sedia, sul cui schenale si appoggia molto sdraiata all’indietro, come se fosse seduta su una macchina sportiva, con le braccia tese in avanti. Indossava un tailleur-pantalone nero abbottonato su una maglietta nera, con mocassini neri senza tacco (è molto alta). I bei capelli dorati, ondulati e lunghi fino alla schiena, erano portati alla Argerich, cioè sciolti. Su qualche passaggio difficile si chinava in avanti e scompariva sotto la chioma in modo molto buffo, tipo “chi è quello spinone che è salito sul palco”.

Mi è sembrato che della Argerich imitasse non solo la pettinatura ma anche l’atteggiamento e alcuni gesti, in quella che suppongo essere una identificazione anche inconscia con un idolo assoluto con cui ha avuto il privilegio di suonare più volte, beata lei.