La tempesta Maisky

Il rumore secco delle violente ditate sulla tastiera, sbuffi e grugniti continui a sottolineare l’impegno fisico, improvvise accelerazioni, un sacco di vibrato, un sacco di espressione: in poche parole, angosciante.

Se tu prendi le Suites 1 e 2, sconvolgi metrica e accenti di quelli che dovrebbero essere movimenti di danza, e spezzi e frammenti e stravolgi i meccanismi della musica in modo totalmente casuale (almeno questa la mia impressione), ne viene fuori un rumore insopportabile.

“Basta premere il tasto giusto al momento giusto”, diceva modestamente Bach. Ma il momento giusto esiste davvero: ti permette di costruire una tensione dinamica, e poi un rilascio, che diano al tuo suonare una direzione, una necessità di ogni singola nota per come si rapporta alle altre.

Maisky invece ieri sera sembrava rifiutare il lato architettonico di Bach, e ce ne ha offerto invece una versione quasi destrutturata e postmoderna. E soprattutto cupa, senza luce, sempre agitata, nervosa.

Capisco che se tu per quarant’anni suoni sempre le stesse sei Suites, ti viene anche la voglia di tentare qualche esperimento, di appagare il tuo ego. Ma per parte mia lo considero un esperimento non riuscito.

Diverso discorso per la Suite No. 5, che è stata affrontata in modo molto più rispettoso e contenuto (d’altra parte è tecnicamente assai più difficile delle altre), e mi ha riscattato la serata.

Pubblico numeroso, applausi caldissimi.

Ma nella mia testa rimane, ineguagliato, il concerto di vent’anni fa di Natalia Gutman, che venne a Milano ed eseguì in una sera tutte e sei le Suites. Ne uscii sconvolto, con le lacrime agli occhi dall’emozione. Nessuno ha mai più suonato così.